Guido Gozzano | L’amica di nonna Speranza

L’amica di nonna Speranza di Guido Gozzano è una delle poesie italiane più note: è tra le più lette nelle scuole e probabilmente anche tra le più odiate dagli studenti per la lunghezza e la ricchezza di citazioni, che ne rendono particolarmente ostica la parafrasi e l’analisi del testo.

Nella sua versione definitiva, la poesia è tratta dalla raccolta I colloqui (1911) e prende le mosse dal fatto che il poeta – sfogliando un vecchio album di foto –  ha ritrovato un’immagine scattata nel 1850 in cui sono ritratte sua nonna Speranza e l’amica Carlotta, all’epoca diciassettenni. Ne esce un quadro poetico che elenca e racconta, dandole nuova vita, una quotidianità fatta di oggetti e valori ormai consumati e impolverati, raccontati con affettuosa ironia da chi sente che quel mondo piccolo borghese non ha più nulla di attuale.

L’attacco, con quel “Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri” e la celeberrima citazione delle “buone cose di pessimo gusto”, è uno dei più noti della poesia italiana e uno dei più citati. Ma anche altri passaggi hanno fatto la storia della lingua italiana (“Carlotta! nome non fine, ma dolce”, per citarne uno). Tanto basta a rendere questa poesia un capolavoro.

Particolare attenzione merita poi il complicato schema metrico, fatto di distici (coppie di 2 versi) di novenari e ottonari raddoppiati (novenario + ottonario, ottonario + ottonario, ottonario + novenario, novenario + novenario). La prima parte di un verso rima per lo più con la seconda metà del successivo, secondo lo schema: ABBA.

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L’AMICA DI NONNA SPERANZA – GUIDO GOZZANO

 

28 giugno 1850
“…alla sua Speranza
la sua Carlotta…”

(dall’album: dedica d’una fotografia)

 

I.

Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto),

il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,

un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco,

Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,

le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherottìpi: figure sognanti in perplessità,

il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,

il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco
chèrmisi… rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!

 

II.

I fratellini alla sala quest’oggi non possono accedere
che cauti (hanno tolte le fodere ai mobili. È giorno di gala).

Ma quelli v’irrompono in frotta. È giunta, è giunta in vacanza
la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta.

Ha diciassett’anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso:
da poco hanno avuto il permesso d’aggiungere un cerchio alla gonna,

il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine.
Più snella da la crinoline emerge la vita di vespa.

Entrambe hanno uno scialle ad arancie a fiori a uccelli a ghirlande;
divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guance.

Han fatto l’esame più egregio di tutta la classe. Che affanno
passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio.

Silenzio, bambini! Le amiche – bambini, fate pian piano! –
le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche.

Motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto
di Arcangelo del Leùto e d’Alessandro Scarlatti.

Innamorati dispersi, gementi il core e l’augello,
languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi:


…caro mio ben
credimi almen!
senza di te
languisce il cor!
Il tuo fedel
sospira ognor,
cessa crudel
tanto rigor!

Carlotta canta. Speranza suona. Dolce e fiorita
si schiude alla breve romanza di mille promesse la vita.

O musica. Lieve sussurro! E già nell’animo ascoso
d’ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,

lo sposo dei sogni sognati… O margherite in collegio
sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati!

 

III.

Giungeva lo Zio, signore virtuoso, di molto riguardo,
ligio al Passato, al Lombardo-Veneto, all’Imperatore;

giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene,
ligia al passato, sebbene amante del Re di Sardegna…

“Baciate la mano alli Zii!” – dicevano il Babbo e la Mamma,
e alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii.

“E questa è l’amica in vacanza: madamigella Carlotta
Capenna: l’alunna più dotta, l’amica più cara a Speranza.”

“Ma bene… ma bene… ma bene…” – diceva gesuitico e tardo
lo Zio di molto riguardo “Ma bene… ma bene… ma bene…

Capenna? Conobbi un Arturo Capenna… Capenna… Capenna…
Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro… sicuro… sicuro…”

“Gradiscono un po’ di moscato?” “Signora sorella magari…”
E con un sorriso pacato sedevano in bei conversari.

“…ma la Brambilla non seppe…” – “È pingue già per lErnani…”
“La Scala non ha più soprani…” – “Che vena quel Verdi… Giuseppe!…”

“…nel marzo avremo un lavoro alla Fenice, m’han detto,
nuovissimo: il Rigoletto. Si parla d’un capolavoro.”

“…Azzurri si portano o grigi?” – “E questi orecchini? Che bei
rubini! E questi cammei…” – “la gran novità di Parigi…”

“…Radetzki? Ma che? L’armistizio… la pace, la pace che regna…”
“…quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio!”

“È certo uno spirito insonne, e forte e vigile e scaltro…”
“È bello?” – “Non bello: tutt’altro.” – “Gli piacciono molto le donne…”

“Speranza!” (chinavansi piano, in tono un po’ sibillino)
“Carlotta! Scendete in giardino: andate a giocare al volano!”

Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto
inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene.

 

IV.

Oimè! che giocando un volano, troppo respinto all’assalto,
non più ridiscese dall’alto dei rami d’un ippocastano!

S’inchinano sui balaustri le amiche e guardano il Lago
sognando l’amore presago nei loro bei sogni trilustri.

“Ah! se tu vedessi che bei denti!” – “Quant’anni?…” – “Vent’otto.”
“Poeta?” – “Frequenta il salotto della Contessa Maffei!”

Non vuole morire, non langue il giorno. S’accende più ancora
di porpora: come un’aurora stigmatizzata di sangue;

si spenge infine, ma lento. I monti s’abbrunano in coro:
il Sole si sveste dell’oro, la Luna si veste d’argento.

Romantica Luna fra un nimbo leggiero, che baci le chiome
dei pioppi, arcata siccome un sopracciglio di bimbo,

il sogno di tutto un passato nella tua curva s’accampa:
non sorta sei da una stampa del Novelliere Illustrato?

Vedesti le case deserte di Parisina la bella?
Non forse non forse sei quella amata dal giovine Werther?

“…mah! Sogni di là da venire!” – “Il Lago s’è fatto più denso
di stelle” – “…che pensi?” – “…Non penso.” – “…Ti piacerebbe morire?”

“Sì!” – “Pare che il cielo riveli più stelle nell’acqua e più lustri.
Inchìnati sui balaustri: sognamo così, tra due cieli…”

“Son come sospesa! Mi libro nell’alto…” – “Conosce Mazzini…”
– “E l’ami?…” – “Che versi divini!” – “Fu lui a donarmi quel libro,

ricordi? che narra siccome, amando senza fortuna,
un tale si uccida per una, per una che aveva il mio nome.”

 

V.

Carlotta! nome non fine, ma dolce che come l’essenze
risusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline…

Amica di Nonna, conosco le aiuole per ove leggesti
i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.

Ti fisso nell’albo con tanta tristezza, ov’è di tuo pugno
la data: vent’otto di Giugno del mille ottocento cinquanta.

Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo
e l’indice al labbro, secondo l’atteggiamento romantico.

Quel giorno – malinconia – vestivi un abito rosa,
per farti – novissima cosa! – ritrarre in fotografia…

Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! Ove sei
o sola che, forse, potrei amare, amare d’amore?

Ci piacerebbe sapere cosa ne pensi

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